Mutamenti identitario-relazionali nei nuovi assetti della famiglia. Dott.ssa Mondello

Mutamenti identitario-relazionali  nei nuovi assetti della famiglia

Siamo corpo che è mente, naturalmente culturali, genetica che dialoga con l’ambiente

La nostra attenzione alla crescita  del bambino, ha come naturale campo di competenza   la definizione  degli assetti familiari, sociali che ne sono il necessario e  significativo   sostegno.

 Ci appartiene l’estesa teorizzazione psicoanalitica che del sessuale ha fatto la matrice della psichicità, dei percorsi identitari, della costituzione della coppia parentale, delle funzioni del maschile e del femminile.

Freud

La forte incidenza della cultura freudiana, nel secolo appena trascorso, ci ha consegnato il triangolo edipico con tutte le sue vicissitudini, come paradigma forte  in grado di permeare tanto la  cultura psicologica che il pensiero comune: Edipo  abita la nostra comprensione dell’infanzia  come storia di famiglia che si ripete.

 La lettura  della conflittualità dei sentimenti infantili, polarizzati dall’attrazione verso il genitore di sesso opposto e la rivalità verso l’altro, matrice di ogni nevrosi, le angosce di castrazione diversamente lesive del maschile e del femminile ed i complessi conseguenti, hanno occupato l’attenzione competente e  profonda di analisti e pazienti per lungo tempo.

Un testo tra tutti sembra esemplificare l’accidentato procedere freudiano  a cui mi pare interessante tornare in riferimento alla maturazione identitaria: La lezione 33 , della Introduzione alla psicoanalisi ( nuova serie di lezioni) del 1932 dedicata alla Femminilità.

Maschile e femminile occupano molta dell’attenzione successiva della psicoanalisi nella revisione kleiniana,  winnicottiana, un po’ meno la bioniana e successive.

Sostanziali trasformazioni di fatto, ma consentendo che rimanesse comunque in filigrana il pensiero freudiano in alcune sue componenti che sembrano costituire lo shibboleth che permette di riconoscersi dentro o fuori la psicoanalisi.

Questioni ampie che travalicano le esigenze di questo incontro.

Ancora oggi non mi pare sia stata formulata una convincente teorizzazione della crescita femminile, che nella teorizzazione psicoanalitica rimane o segnata  dall’essere pallida riedizione, con qualche diversificazione, del drammatico , ma certo crescere del bambino, del maschile. Al quale sono attribuibili dolorose condizioni, frutto di  cocenti desideri, minacciato da castrazioni  più o meno simboliche,  pronte  soggiacere rapidamente  al potente Super- io  così da, procedere nel mondo con potenza, desiderio, autorità.

Necessario riconoscere che la teorizzazione psicoanalitica, intenzionata a proporsi come lettura universale della crescita umana, debba fare l’esercizio di collocarsi in una dimensione storica, segnata dalla cultura consolidata, riconoscendo con migliore chiarezza quanto  qualunque pensabilità faccia i conti, si iscrive  nel tempo intrecciandosi con i saperi altri rivolti alla medesima materia. Sapere chi siamo, come funzioniamo, la società che viviamo, i rapporti economici, gli assetti personali, etc..

La psicoanalisi attuale, sembra consentire, rispetto al nostro tema, ampie trasformazioni e cambi di paradigma ma  come un grande fiume, tendendo a mantenere percorsi, modi di dire consolidati.

La professionalità di donne colte e competenti della psicoanalisi sembra  accogliere il portato freudiano come se non fosse poi così necessario rileggere alla luce di quanto per merito della stessa psicoanalisi ha preso forma e valore per il femminile.

Forse continua a funzionare  l’escamotage riportato da Freud, adottato durante i dibattiti tra psicoanalisti e psicoanaliste a proposito del tema maschile e femminile. Quando gli analisti venivano  accusati dalle colleghe di  tenersi pregiudizi, diremmo oggi, maschilisti: “A noi- scrive Freud- per contro era facile evitare, invocando la bisessualità, ogni scortesia. Non avevamo che da dire:  “Questo non vale per Lei. Lei è l’eccezione, essendo, su questo punto, più maschile che femminile.”[1]!!

Pensiero, legge del padre, la imprescindibile psico-libido, ogni elemento della psicoanalisi  prende forma in chiave maschile. Per inversione, e mille movimenti e contorsioni  ne deriva un femminile comunque non titolare del desiderio, debole, passivo….Per lo meno nel dettato freudiano.

Per diluizioni progressive e in modi sempre meno accentati, polarizzati, contrapposti,  oggi la psicoanalisi non frequenta quasi più il dover definire i paradigmi necessari  per comprendere in modi fortemente differenziati  maschile e femminile. La centralità del bambino e della relazione con la madre ha velato la questione. La teorizzazione Kleiniana ha per così dire oscurato il primato del padre  centrando l’attenzione sul bambino e le sue relazioni.

Winnicott e Bowlby , Bion  naturali espansioni del discorso Kleiniano, hanno estesamente ampliato e  sempre meglio accentato il valore dell’incontro del bambino con chi se ne prende cura.

Ma non si può trascurare che la storia della declinazione  culturale, sociale, del vivere, tutta al maschile è così estesa, diffusa in ogni parola, gesto, concezione implicita, regolazione comune, da non essere neanche percepita.

Dico in ogni parola perché  lo stesso vocabolario   ha e continua ad avere struttura maschile.

Il Vocabolario Treccani, unico forse, da  circa un anno, ha  adottato  l’ordine alfabetico per procedere nella elencazione delle parole, nella sistemazione progressiva dei lemmi. Con questo sistema gatta compare prima di gatto ad es.

Era così naturale che le parole fossero  declinate al maschile e poi, dopo, femminile, plurale etc.

Una scelta che rivoluziona il vocabolario, da sempre possibile, ma solo oggi adottata.

Bisogna ammettere che  è per  tutti difficile, poco familiare, orientarsi nel nuovo sistema.

Aggiungo come nota di costume che quest’anno, sempre la  Treccani , nel dare  notizia dei neologismi che vengono accolti nel vocabolario  ha scelto come parola dell’anno «femminicidio» sostenendo che è il neologismo che meglio evidenzia,  «l’urgenza di porre l’attenzione sul fenomeno della violenza di genere e stimolare la riflessione».

Dalla classicità greca ai nostri giorni  potenza, vitalità, calore generativo, sono attributi del maschile ma  soprattutto, in riferimento alla qualità generativa ,è l’esatto contrario che segnala tutte le non qualità del femminile.

Fino ai nostri giorni  il sessuale sembra segnalare la  disparità valoriale tra uomo e donna. Una disparità  naturale, senza necessità di dimostrazione.

Protezione, comando,  superiore potenza del maschile, se oggi soggiacciono a una lettura inevitabilmente  critica , perché colti sempre meglio e sempre di più negli aspetti aspramente vessatori se non lesivi della stessa attribuzione della posizione di persona al femminile, sono storia; ma la storia è fatta della contingenza, dello sviluppo culturale e scientifico, di cambiamenti che procedono per micro cambiamenti, ma anche rivoluzioni, sviluppo.

Se le donne sono state soggette al maschile, nel suo possesso e nella sua giurisdizione, ciò è parso sensato per millenni. La presenza  dei sistemi patriarcali espliciti, è così estesa nel mondo da rendere rivoluzionario, e dunque eversivo dell’ordine sociale, ogni cambiamento che attribuisca autonomia al femminile.

Non c’è elemento regolativo(giuridico) e culturale che a seguirne le tracce non ancori quanto  quotidianamente viviamo con filosofie declinate lungo la linea greco-latino- cristiana che  ultima ne raccoglie e condensa i fondamentali.

La materia di cui ci occupiamo è estesa, in un intreccio fitto e pervasivo in ogni aspetto della vita.

Le donne dunque  hanno vissuto in una cultura che è maschile e  che coerentemente  norma, ha valori, da potere  a uomini tra uomini.

Tutto questo  sta radicalmente mutando e siamo sostanzialmente impreparati, uomini e donne, a viverne gli assetti per forza di cose, nuovi, disorientanti, avendo perso la chiarezza di sistemi, autoritari si, ma capaci di tenuta del sociale. A partire dalla  regolazione del familiare.

Grandi le rivoluzioni del ‘900:  Accesso alla vita pubblica del femminile, mutamento sostanziale del matrimonio con l’irruzione di innamoramento e amore, la cui eternità non sembra pratica possibile, mentre la costituzione della famiglia e della cura dei figli è per sempre. Tanto per mettere in campo alcune essenziali questioni.

Tornando a Freud.

L’amore materno, nel dettato freudiano, non si appoggia su una qualche sublimazione, ma piuttosto è  frutto di una disposizione naturale, sessualizzato quel tanto che basta a sostenere il legame  col bambino, espressione della libido femminile, meno forte  e più repressa di quella maschile.

Sinteticamente ci troviamo di fronte a due posizioni  della sessualità femminile:

– si esprime compiutamente nella maternità, ha come oggetto naturale il bambino, ha come correlato l’acquisizione di un Super-Io debole, oggetto di desiderio e non soggetto, condizioni che sembrano nutrire una inibizione del pensiero sessuale che si estende alla competenza intellettiva;

– è repressa e negata socialmente  ed è necessario che venga costituita nella sua forma omologabile a quella maschile, cioè avente  come oggetto  il maschio adulto, condizione indispensabile perché si realizzi  un sano e  reale accoppiamento generativo, oltre che l’accesso a qualità intellettive, comunque da Freud riconosciute come possibili ma come si diceva appoggiate a qualità maschili.

Intanto ricordiamo qui che il  sessuale non materno auspicato da Freud per il femminile non troverà nel corpo teorico freudiano configurazione  sua propria; sarà affermato e contemporaneamente espresso come la copia in negativo della sessualità maschile, vessato dall’assenza del pene, dall’invidia, dalla passività, dalla castrazione: il sessuale affermato sarà comunque la riedizione per il femminile di un sessuale labile, debole.

La concezione freudiana  dell’amore materno  inconsapevolmente “sessuale”    e del legame del neonato con la madre, mosso da determinanti  univocamente sessuali, sia pure parziali e pregenitali, mal si adattano  alla nostra  consapevolezza più recente di una irriducibilità delle motivazioni umane a quella sessuale soltanto, sia pure nella formulazione psico-libidica.

Essendo co-presenti sin dalla nascita, nel bambino, predisposizioni  alla relazione sociale, all’esplorazione dell’ambiente, per citarne un paio, della medesima forza ed importanza. E presumibilmente anche nella madre, come in tutti gli umani,  simmetriche qualità necessarie  a sostenere la complessa crescita del mentale.

Ci muoviamo, nella lettura dei processi di mentalizzazione da un andamento  gerarchico  a ramificazioni progressive-lo psico-libidico da cui tutto si dipana e prende forma secondo la psicoanalisi- al riconoscimento della co-presenza di tutte le componenti delle competenze umane in sviluppo e crescita  in fitto intreccio, emozionale, affettivo , sin dalla vita uterina.

La sessualizzazione del materno freudiano, espressa  fino al limite della perversione e contemporaneamente repressa fino  alla totale inconsapevolezza della madre, non trova posto nella teorizzazione  sempre  più centrata sul bambino, della scuola psicoanalitica inglese e nello sviluppo successivo delle teorie dell’attaccamento (Bowlby e altri), della sintonizzazione degli affetti di Stern, delle ultime teorie  che leggono la crescita  mentale infantile come processo integrato affettivo-cognitivo di modellizzazione  della estesa relazione con la realtà, attraverso lo sviluppo di una  teoria della mente e di una funzione riflessiva (Fonagy). Nella psicoanalisi infantile di matrice anglosassone, scompare ogni minorità o debolezza  del femminile ,non c’è traccia  di un “erotico materno”.

La madre che si accosta  al bambino  in un corpo a corpo   e in un mente a mente che trovano nell’allattamento  la loro espressione più  segnata da valenze sessuali e di piacere, cosa è chiamata a vivere, in che modo  si  ritaglia  o si tiene integrata nel   suo essere donna nella relazione col maschile  e madre col figlio? Qual è la soluzione  possibile, quale la rappresentazione simbolica di questo stato?

Il rapporto madre-bambino sembra inscriversi e trovare statuto nella “costituzione”  stessa ( biologica sembrerebbe ad una prima semplicistica  lettura) dell’identità femminile, destinata sostanzialmente al materno e per questo, fortemente distanziata dalla sessualità. O come affermava Freud  maternamente sessualizzata, con difficile sviluppo dell’investimento dei gesti legati alla generatività, della relazione col maschile.

 

Attraversa la nostra cultura  la tendenza a considerare il femminile come più emozionale, istintuale,  “natura”  e il maschile come più razionale, logico,  “cultura”, facendo derivare da tale appartenenza  la valutazione universalmente subordinata delle donne rispetto agli uomini. Molti studi antropologici confermano  ciò. Più specificatamente, è attraverso la fisiologia riproduttiva femminile  ed i ruoli   sociali ad essa associati che la donna giunge a rappresentare la natura. L’uomo non essendo destinato alla mera riproduzione della vita, impone la propria creatività “artificialmente” per mezzo della tecnologia e dei simboli.  Le donne, identificate con la natura, sono destinate a uno status secondario e svalutato sul piano sociale,  ma contemporaneamente è a loro riconosciuto il valore e compito di  garantire la vita delle generazioni, di  mediare tra natura e cultura.

 La cura del bambino ne è  chiara  esemplificazione.

Padre

Un unico elemento  sembra acquisito universalmente  e compare in ogni concezione del padre: l’invenzione della paternità è tipicamente umana  ed è  a matrice esclusivamente culturale.

L’origine della famiglia  viene dagli studi antropologici colta nell’offerta di cure parentali da parte del maschio ai  figli della femmina. Dunque all’interno della intersezione tra due rapporti  fondamentalmente biologici,  il legame di filiazione tra madre e figlio ed il legame di coppia tra  maschio e femmina, la paternità stabilisce un terzo legame  e dà luogo ad una relazione triadica tra genitori e prole. Centro

Questa   concezione dell’origine della paternità è il precipitato delle tante letture che sono state proposte del costituirsi delle fondamentali relazioni umane.[2]

Affronto il compito di    guardare alla paternità col pensiero che la sua funzione, così come è stata letta e come ancora è vissuta, poiché va ammesso che con difficoltà si articola nella tradizione col concreto farsi del crescere umano, va riferita al mito, alla storia del pensiero, alla cultura, ad una dimensione che sembra trascendere la quotidianità e insieme informarla e costituirne il canone.

Abbiamo consapevolezza che si va facendo strada nella nostra società l’esigenza, ormai abbastanza diffusa tra la popolazione maschile, di essere padri in modi più prossimi all’infanzia e alla relazione diretta e significativa col bambino, per   accedere ad una dimensione della paternità che possa farsi carico e godere  del partecipare a pieno titolo alla nascita e crescita del piccolo dell’uomo in realtà da sempre della donna.

Bisognerà allora pensare alla presenza dei due sessi accanto alla crescita di un bambino, di adulti accanto ad un bambino, senza che sia possibile individuare differenze tra maschile e femminile che non siano dettate da ruoli sociali o da una economica o culturale divisione dei compiti, che solo nell’essere convenuta, trova la sua ragione d’essere e lo statuto?

Mi propongo dunque di spostare su questo asse il tema di una possibile lettura della paternità non impastoiata da contrapposizioni, complementarità, sovrapposizioni con la maternità, oltre che liberata dal pesante fardello di una funzione trascendente la realtà della cura e del rapporto, seducente, ma distante dal nascere e crescere del bambino. Non è facile  infatti sciogliere il nodo  che lega  la paternità a una condizione  superiore, e consentire al maschile di stare nella generatività non solo nel mentale e attraverso modi  estesamente sociali, ma,  come accade per il femminile, anche nell’ accompagnare la quotidianità e l’ intimità del crescere.

Il pensiero occidentale percorre sin dalle origini una strada che distanzia l’umano dalla natura,   riconoscendo l’edificazione della cultura come territorio della specificità umana e facendo del rapporto privilegiato con la divinità  un uso che giustifica il dominio sulla terra e su tutti gli aspetti “naturali” che sostengono l’esistenza. Va accolto che lo sviluppo tecnico e l’ avanzamento del pensiero umano, della scienza è conquista maschile. Il femminile sembra sostenere tutto questo, garantendo la materia prima.

Il padre, il rapporto col padre, in un movimento  di rimandi senza fine, presenzia  e sostiene il nascere umano nella sua espressione universale

. Il padre freudiano sta nella storia  individuale  e umana  come legge, ordine morale, religiosità e quant’altro ma è un padre ucciso, è il padre della colpa, predatore e predato, senza l’eliminazione del quale non è possibile fratellanza  alcuna, patto sociale, garanzia delle generazioni future.

Va a questo proposito rilevato che lo stesso Winnicott, nell’ individuare un’area  di pertinenza maschile  e simbolica,  afferma : “ Mi sembra  che l’ idea di ciò che in termini psicoanalitici è chiamato pene compaia in origine in relazione a certe qualità della madre, quali norme, regole, temporizzazioni,  durezza[sic!], indistruttibilità [ doppio sic!]. A un’epoca variabile queste idee si raccolgono insieme e possono essere trasferite al padre, se questi è presente.” [3]

Mi si lasci dire: norma,  regola e quant’ altro è inevitabile leggerli, anche per lo psicoanalista più “maternizzante” come qualità maschili. Non importa chi se ne fa portavoce. La madre rappresenta in proprio l’ universo indistinto neonatale primordiale. Solo al bambino che ha presente il padre è data la possibilità di arrivare ad una sana e cognitivamente corretta comprensione   della fondazione naturale di quanto  dal sesso maschile deriva: cultura e posizionamento sociale.

E qui compare una universalmente riconosciuta funzione paterna  riferita alla coppia madre-bambino. Si assume come significativo il suo darsi il compito come se fosse legge dinatura, di costituire la distanza, lo spazio necessario perché ci sia comunicazione tra due esseri, perché ci sia nel bambino una possibile individuazione. Il Padre dunque come garante dell’ incontro  tra madre e bambino, come ponte che  favorisce la relazione   perché è garantita tra i due separazione.

Torna da tutte le parti e per versi diversi  il pensiero che il Padre è la regola, il tempo, lo spazio necessario perché  la pericolosa tendenza alla fusione di madre e figlio si divarichi attraverso la penetrazione della funzione paterna che come un cuneo la impedisce e per questo garantisce individuazione, crescita affettiva e cognitiva, pensiero. E tutto questo semplicemente esistendo o più o meno pesantemente reclamando la madre per sé.

La visione del bambino che oggi ci accompagna, già ben individuato sin dalla nascita, in relazione con chi se ne prende cura, sembra sciogliere pericolose fusionalità senza l’intervento di terzi.

Winnicott  da una definizione  estesa del padre, ne affronta  i compiti collocandolo in una posizione prossima all’ unicum madre-bambino, garante  di questo incontro. Concepisce  un concatenarsi funzionale delle funzioni  riferite all’ infanzia lungo una linea che a ventaglio va dal sociale al neonato che può essere così schematizzata:  la madre, vertice essenziale, si prende cura del neonato; il padre la sostiene  e occupandosi delle relazioni col mondo esterno la libera da ogni altro compito, presente attivamente presso la madre  e da questa e dal rapporto con questa  reso presente al bambino; la famiglia che ha allevato i genitori costituisce  e colloca nel sociale e nella storia la nuova nascita; la società  anch’essa si rappresenta presso la culla,  fornendo  un ambiente vivo e nutritivo  per la persona che sta individuandosi.

Se ha dato spazio a questa teorizzazione  dai forti connotati sociologici è per condividere quanto  sia nella nostra competenza che nel sentire comune appaia consistente la concezione di una funzione paterna nelle mani esclusive del maschile imprescindibile per una buona crescita.

Possiamo riconoscere che la estesa teorizzazione psicoanalitica sembra puntualmente essere il riconoscimento antropo-sociale  e la sottolineatura  degli assetti di vita familiare propri del tempo in  cui ne viene formulata la comprensione.

Ho voluto riprendere per accenni la concezione freudiana del femminile e del maschile, così fortemente polarizzata,  gerarchica, per riconoscere quanto la clinica successiva, a partire dai contributi  kleiniani, la ricerca,  ci consegnano con sempre migliore precisione la lettura della competenza neonatale e infantile con qualità e caratteristiche che non sembrano richiedere specializzazioni di sorta.

E contemporaneamente meglio definendo la  competenza adulta  che accoglie e accompagna il bambino, la sua crescita.

Per accenni alcune acquisizioni culturali e scientifiche, che secondo un criterio parsimonioso suggeriscono quanto aspetti del vivere che avevamo collocato in complessizzazioni ad esclusiva competenza umana, alta, possono trovare espressione e compiuta realizzazione in assetti di base, condivisibili col mondo animale ad es.

Specie- specificici in quanto a modalità, ma fondamentalmente di tutti.

Potendo pensare il neonato in grado di essere partner attivo,  portatore di una soggettività già in grado, sin dai primi gesti, di stare in funzionale dialogo con l’adulto.

Neuroni specchio

–  Le ricerche che hanno portato alla scoperta dei neuroni specchio avvalorano  il funzionamento qualitativamente intersoggettivo in una intercorporeità   che  rimescola le carte e apre scenari tutti da pensare e accogliere nella comprensione che andiamo costruendo della mente umana.

Un accenno  al loro funzionamento.  Le ricerche sui macachi condotte a Pavia dal gruppo Rizzolatti, Gallese e all. ha messo in evidenza nel 1992 come all’interno del sistema motorio corticale con funzione essenzialmente  legata agli scopi motori, un  particolare gruppo di questi  neuroni, poi definiti specchio, si attivano se l’animale percepisce un gesto di cui evidentemente è “intuita” l’intenzione.  Sono stati perciò ritenuti come l’espressione di una immediata e diretta comprensione dell’azione. Possibile, dal momento che non vi è rappresentazione, facendo riferimento alla “conoscenza motoria” posseduta dall’osservatore.

( vedi la capacitàimitativa  neonatale di Meltzoff).

Dunque gli eventi percepiti  attivano e  vengono integrati dagli stessi neuroni motori che permettono l’esecuzione delle azioni, senza che si realizzi l’azione e consentendo comprensione.  Sostanziale fatto e non pensiero.

Perché è sufficiente la percezione del gesto che inizia l’azione o il suono coerente con, mettiamo, prendere qualcosa, per attivare i neuroni specchio.

Ne consegue che il sistema motorio struttura tanto  l’esecuzione di un’azione che la sua percezione. Vivendone il senso.

La presenza di questo meccanismo  sia  nell’animale che nell’uomo avvalora la “cognizione motoria” come  fondamento dell’intersoggettività: anche sensazioni e emozioni , è stato affermato da ricerche successive alla scoperta, sono percepite e compartecipate alla stessa maniera (Rizzolatti G, Sinigaglia C, 2019).

È l’esperienza vissuta  che consente la percezione e la comprensione “incarnata”dell’emozione, sensazione dell’altro. E il  concetto damasiano  sviluppato da Gallese di simulazione incarnata, definita  come processo non introspettivo e rappresentazionale, ma corporeo, a fare da  descrizione esplicativa di una mente, corpo che è mente.

Questo breve accenno per apprezzare competenze e bisogni intersoggettivi sempre presenti e funzionalmente “mentali” e “mentalizzanti”  sin dai primi passi della crescita che dunque non deve attendere linguaggio e altre maturazioni per essere apprezzata come validamente funzionante  e in grado di realizzare l’intendersi significativamente con l’altro. Ma anche per affermare necessaria alla  crescita mentale, la  presenza significativa e  interrelata dell’altro, della mente dell’altro accanto al bambino.

 Forte l’enfasi sul sistema emozionale

– Per definire il campo della Cura al bambino mi riferirò alla chiara esposizione che del tema fornisce Panksepp ( Panksepp J, Biven L. 2012) in un testo i dal titolo Archeologia della mente.

Panksepp J. E Biven L. (2012) estesamente e con molta chiarezza hanno definito , sette sistemi emotivi o affettivi, condivisi e sentiti  dal mondo animale e umano, denominati: RICERCA, PAURA, COLLERA, DESIDERIO SESSUALE, CURA, PANICO/SOFFERENZA, GIOCO. Fondamenta sottocorticali  della mente.

Panksepp insegnava in una facoltà veterinaria, e come sa chi mi conosce, amo sentire e apprezzare la continuità del mondo umano con quello animale, ma anche botanico. E affidarmi a chi sa muoversi tra i regni …  in grado di tracciare  i percorsi evolutivi che ci attraversano e caratterizzano.

Ma anche gli assetti di vita, le composizioni familiari, amicali, il valore e potere dei diversi modi di vivere relazioni interpersonali, sociali, organizzazione del lavoro, etc.  moltiplicano gli scenari quotidiani delle relazioni significative per la CURA del bambino, costringendoci a prendere atto ma anche a prefigurare, agibilità possibili della crescita in contesti e modi  in via di definizione e realizzazione.

Quel che preme allo stato attuale  è riconoscere che ricerca e prassi clinica  ci consegnano una percezione   della mente umana frutto di  una biologia competente che sostiene, si fa  vita  in un fitto dialogo tra innato e acquisito, naturale e culturale, genetica e ambiente.

Senza primati o conflitti tra le diverse parti.

Proviamo a definire minimamente Il bambino per  cogliere le attitudini  adulte che ne possano accompagnare la crescita.

Una competenza  essenziale e per questo alla base di tutte le altre qualità della mente, riconoscibile alla nascita ma anche durante la vita fetale:  i bambini sono sociali,  hanno la forte attitudine a incontrare il mondo e interagire con gli altri, prima di tutti mamma e papà.

Giova minimamente ricordare il lungo percorso che ci ha permesso per tappe di riconoscere il capovolgimento percettivo della neonatalità, che ci appartiene:

il bambino incapsulato in un autismo primario ha ceduto il passo  una concezione che gli riconosce la possibilità di incontrare il mondo in modi interrelati e competenti ancor prima di nascere.

È  il presupposto della attuale concezione dell’intersoggettività, concepita come lo snodo essenziale che colloca il bambino e chi se ne prende cura in un fitto dialogo necessario perché la mente prenda forma. Riconoscendo che il bambino è attore insieme all’adulto dell’incontro, ognuno portatore di essenziali modlità dialogiche.

E che una fondamentale intercorporeità, significativamente dialogica rende riconoscibile il grande valore  di una corporeità mai cieca e distante dal mentale.

Essenziale la concettualizzazione damasiana del nostro essere mente incarnata.

Siamo consapevoli  di come le potenzialità e i percorsi così forti, nella loro fondazione genetica, biologica, prendano forma e divengano in maniera unica quel bambino, quella persona,  frutto di un modellamento che dal micro al macro dialoga con l’ambiente.  Da  quello cellulare all’ambiente di vita.

Se fino a ora la stessa intersoggettività è stata concepita come riconoscimento e comprensione dell’altro, frutto di rappresentazione  simbolica, oggi sembra necessario e possibile collocarla , senza che venga meno qualità, la dove non ci saremmo aspettati di apprezzare la competenza necessaria. In funzione senza che a validarla debbano necessariamente intervenire  rappresentazione e coscienza.

Non meno essenziale l’attitudine  primaria del bambino  a rivolgersi al mondo, alla realtà che lo circonda con passione e ricerca di non minore valore e intensità.

Possiamo riconoscere nel contributo neuroscientifico la scoperta sempre più estesa di  raffinati e ben ponderati funzionamenti  ancestrali, condivisi col mondo animale- riconosciute le diversificazioni  -che rendono comportamenti e attitudini, fino a poco tempo fa attribuibili a funzionamenti “superiori” del cervello se non addirittura disancorati  dal supporto fisico e  immateriali, possibili e frutto di livelli “primitivi” della  cerebralità.

Compare, è vero,  il timore   di una riduzione del mentale al fisiologico, all’ anatomico, alle strutture cerebrali  se  si apprezza   l’incontro   del bambino con la madre come  fondante non solo la prima crescita, fisiologico-istintuale, ma anche quella mentale e psicologica  che abbiamo  concepito nei secoli distinta dalla prima e da collocare su un terreno altro, culturale, paterno .

Se si percorre questa strada scompare il paterno per approdare ad un indistinto e generale materno? Poiché  a tutti i genitori è richiesta un’ unica funzione  i cui tratti sono attribuiti e mutuati  dal femminile,  il maschile dovrà cedere la sua centralità  antica  per accettarsi  e costituirsi genitore accudente  senza distinzioni e specificità? E’ questo lo scenario che sembra prospettarsi?

Proviamo non a trovare la risposta, ma  a  porre alcuni quesiti.

-I nuovi assetti del nascere ( contraccezione, procreazione assistita, inseminazione, concepimenti in vitro, etc), il mutato rapporto tra sessualità e generatività propongono alla coppia ( ormai non più solo eterosessuale), alla relazione genitore-bambino, configurazioni  da mettere in forma  e di forte impatto sul piano individuale e sociale: padre e madre come funzioni al di là dell’ identità sessuale del genitore e  oltre  l’appartenenza  genetica del bambino.

  – La cura del neonato, materna, può essere paterna, senza produrre confusioni, garantendo la medesima qualità? Ai padri è data la possibilità di accedere allo stato specialissimo che riconosciamo realizzarsi nelle madri alla nascita del bambino? Mi riferisco all’apprensione  materna primaria. Si può individuare o pensare uno specifico modo del padre differenziato da  quello materno, di entrare in relazione col bambino?

– E l’identità maschile? E quella femminile?

Siamo di fronte a nuovi modi di fare famiglia,  a affetti e relazioni tra adulti la cui articolazione  costringe a  accogliere trasformazioni  sostanziali

Il riconoscimento freudiano di una bisessualità primaria, da risolvere senza sfrangiature nel percorso di crescita in decisi e precisi  maschile e femminile ha dovuto lasciare spazio  nella realtà individuale e sociale a posizionamenti  più compositi e articolati. Consentendo di affermare che  le posizioni identitarie individuali si collocano in un continuum che, senza soluzione di continuità, muove tra gli estremi maschile e femminile polarizzati massimamente.

 Abbiamo imparato a distinguere sesso biologico, identità di genere, ruolo di genere e orientamento sessuale.

Proviamo brevemente a definire.

Necessario sinteticamente riportare quanto comunemente condiviso nella attuale competenza culturale e scientifica coerente col tema.

Nella consapevolezza che si tratta di una materia le cui ricadute sono oggetto di travagliato e sofferto dibattito: intuitivo che si tratta di mettere contemporaneamente mano alla stessa costituzione della generatività e genitorialità.

Aggiungendosi alla materia, già di per sé scabrosa, la regolazione della fertilità e del nascere attraverso le forme che la scienza bio-medica offre, ma il cui uso (da chi e perché) sollecitando e raggiungendo l’opinione pubblica, la sensibilità religiosa, istituzionale, l’organizzazione sociale, i vissuti personali, le coerenti e in via di precisazione ricadute giuridiche, solleva perplessità e disorientamento.

Panorami  concreti, ideali e ideologici in convergenza e contrasto tra di loro .

Necessario tuttavia, individuare le linee  fin qui maturate, con la consapevolezza di consentire inevitabili messe in discussione ma  nella convinzione che questo sia preferibile a reticenze o restrizioni.

Sinteticamente: che gli esseri umani  possano essere descritti attraverso  due sole categorie di genere, il maschile e il femminile eterosessuali,  appare improprio. Anche se condizione comune.

 Proviamo a minimamente definire le componenti dell’ identità sessuale:

Sesso biologico, concetto intuitivo, è definito dalle caratteristiche genetiche e anatomiche che permettono di leggere  una persona, come maschile , femminile, o intersessuale (cioè portatrice di stati genetico-morfologici  per i quali si rimanda alla letteratura).

Identità di genere, la costruzione del genere, non è un dato, come è intuibile per la definizione precedente, ha determinati culturali. E forti connotazioni psicologiche. Cosa sia proprio del genere maschile o femminile ha contorni frastagliati e in trasformazione  in ogni tempo e latitudine. L’accento relativo all’ identità di genere va posto sulla condizione, lungo l’asse maschile/femminile a cui ciascuno si percepisce  appartenente: gli adolescenti di oggi, ad esempio, con facilità, non solo quelli la cui definizione personologica si rivela  difficilmente ascrivibile al maschile o al femminile, si dichiarano fluidi, più spesso ciò accade al femminile, per la verità.

Si tratta del senso di Sé .
Ci torneremo dopo aver completato l’accenno alla composita definizione dell’identità sessuale.

Ruolo di genere, specificazione della identità di genere in riferimento ai ruoli; si tratta dell’insieme di prescrizioni e aspettative che la cultura di appartenenza in modi espliciti (giuridici, religiosi, cerimoniali, educativi) e impliciti (simbolici soprattutto),  indica o impone in modi connotativi al  maschile e al femminile. Pare a prima vista evidente poter attribuire la maternità (dalla gravidanza agli accudimenti primari) al femminile, e al maschile  funzioni che a partire dalla paternità biologica, si realizzano socialmente.

Se consideriamo le diversissime condizioni  socio- antropologiche sparse per la Terra, si va dalla  assenza  fisica e simbolica del padre nella costituzione del gruppo familiare nella gestione familiare e accuditiva (ad es. la costituzione matrilineare della familiarità nelle isole Trobriand della Papuasia),  a sistemi patriarcali, a noi più prossimi,  in cui l’intero ordinamento sociale è nella sua definizione esplicita, ma più spesso implicita, in mano maschile, con conseguente definizione del femminile  e dei minori in ordine alla appartenenza al maschile. A cominciare dal cognome. Ampia la letteratura in merito.

–  Orientamento sessuale: può essere definito come l’orientamento stabile e prevalente dell’attrazione affettiva e/o sessuale verso le altre persone. Ḗ  eterosessuale chi percepisce tale attrazione rivolta a chi ha un sesso differente dal proprio ( con le inevitabili complicazioni coerenti con eventuali identità di genere non in linea con il sesso biologico), omosessuale chi invece sperimenta tale attrazione verso persone dello stesso sesso di appartenenza (con le stesse complicanze di cui sopra) e, infine, bisessuale chi non distingue una prevalenza dell’una o dell’altra attrazione nella propria esperienza (condizione raramente  corrispondente  a uno stabile orientamento della persona, più spesso prodromico alla rivelazione/ accettazione di una condizione difforme dalla comune  differenziazione di maschile e femminile secondo l’assetto biologico).

Queste poche note utili per l’inquadramento dell’area, all’interno  della quale muovere le nostre considerazioni.

Basta tenere conto della articolazione e disarticolazione di queste variabili per riconoscere scenari non facilmente riducibili  e la conseguente moltiplicazione delle condizioni identitarie  possibili. E senza, lo anticipiamo, la precisa ricaduta in campi chiaramente distinguibili delle funzioni, attribuibili per sesso. Per  capoversi: maternità e paternità, competenza accuditiva, attività lavorative, competenze sociali, etc.

Vorrei tornare alla questione della fluidità.

Mi pare possibile leggere quanto ci dichiarano spesso, in seduta, i più giovani degli adolescenti che frequentiamo, tenendo conto di due condizioni attuali:

–  Sappiamo che  l’accedere alla pubertà , alla maturazione sessuale, è processo  accompagnato dal differenziare la propria competenza affettiva in chiaramente sessuata e intessuta di sensualità, passione, forte emozionalità con sempre maggiore chiarezza rivolte  all’oggetto dello proprio specifico desiderio dell’altro, e tutte le altre modalità affettive che consentono amicizia, parentalità.

Ma questo procedere verso chiare esperenzialità affettive diversificate è  confusamente impastato nell’esperienza adolescenziale. Specialmente agli esordi dell’adolescenza.

Con quanta apprensione  l’adolescente ha da sempre  condiviso con noi terapeuti  il timore di poter essere da amico, innamorato dell’amico, senza che questo potesse essere l’espressione di una chiara scelta d’oggetto d’amore.

Penso che oggi sia possibile per l’adolescente riconoscere questo stato  di crescita emozionale,  facendone poi una bandiera. Penso inoltre che  dichiararsi fluide per le ragazze,  adolescenti nascenti,  risponda alla possibilità di accedere al desiderio sessuale, al potersi dichiarare sessuate.

Tenendo conto di un ulteriore aspetto: viviamo in occidente un tempo in cui i ruoli familiari, sociali  non sono più così polarizzati  e distinguibili in maschili e femminili.

Questo   credo sia bene espresso dalla fluidità.  I modi del vestire, ad es. sembrano consentire contaminazioni tra  abiti maschili e femminili, ma soprattutto, la vita quotidiana, le cure per i bambini, il lavoro, non c’è aspetto culturale che viva precise competenze soltanto maschili o femminili.

Le concezioni del bambino  e della crescita, ormai sufficientemente chiarite faranno da base agli interrogativi che dovremo porci quando affronteremo il quesito che fa da spina dorsale al discorso: chi è, chi può avere le caratteristiche funzionali alla cura della crescita umana, oltre la madre. Nella storia culturale che ci appartiene abbiamo definito materno un ventaglio di competenze. Oggi il quesito che si pone è: possiamo attribuire queste funzioni e caratteristiche a soggetti diversi dalla madre. Ma anche per le madri  molto è cambiato della loro collocazione familiare e sociale.

Identitaria e funzionale per conseguenza.

E’ evidente che le carte sono sparigliate e bisogna ricomporre il gioco, secondo le regole che vanno dettando le trasformazioni antropo-sociologiche in atto, la comprensione scientifica, la clinica in grado di accogliere derive sistemiche tutte da integrare e risolvere nel gesto psicoterapico che, se rivolto all’infanzia, non può prescindere dall’avere attenzione agli ambienti di vita del bambino preso in terapia (Mondello M.L. 2013)

Due elementi connotativi la condizione  attuale del vivere umano: forte inurbamento e estesa diffusione del modello monofamiliare della condizione abitativa, accanto al moltiplicarsi di relazionalità tra pari, soprattutto nella condivisione del tempo libero, e di nuove forme del fare famiglia.

L’incontro tra adulti per volersi bene, amarsi e condividere gli spazi abitativi, mi sembra oggi articolare molti modi possibili dello stare insieme. E’ estesamente  l’abitare insieme con valenza affettiva e  anche, ma non esclusivamente, sessuale, che assume la definizione di famiglia e che oggi è al centro di un dibattito dai toni spesso infuocati : va definita famiglia solo l’unione sessuata di un uomo e una donna rivolta primariamente alla nascita della prole o può intendersi come famiglia qualunque condizione di unione affettiva e/o sessuale, non importa il sesso dei partner, che comporti stabilità sentimentale  e costruzione di un esteso essere insieme che può accogliere  un bambino?

Proverei a ripartire dalla definizione del materno per dare corpo alle competenze possibili intorno alla crescita infantile.  .

Continuità-discontinuità tra bambino fetale e neonato.

 

Molta clinica psicoanalitica rivolta ad adulti sembra poter riconoscere a matrice degli stati mentali perturbati antiche condizioni riferibili ai primi mesi di vita se non alla gravidanza. Ferite all’origine ben oltre maltrattamenti e reali trascuratezze.

Quel che si vuole affermare riguarda il riconoscimento che  una donna che viva serenamente la sua gravidanza è nelle condizioni migliori per essere la madre del suo bambino, che solo gravi difficoltà mettono fisiologicamente il bambino nella condizione di problematicità,  che la continuità tra il bambino in gravidanza e il bambino nato riguarda essenzialmente gli aspetti neurofisiologici, ma che non saranno i pensieri o i non pensieri di una madre a essere trasmessi, a influenzare la costituzione mentale del bambino.

Piuttosto va riconosciuta nell’esperienza materna una sostanziale cesura tra il bambino fetale e il neonato. Anche nel nostro tempo che consente di vedere il piccolo in utero, riconoscerne i tratti somatici e il sesso, apprezzarne il movimento, certe qualità personologiche, va riconosciuto il valore essenziale, performativo dell’ incontro reale col bambino.

Bisogna incontrarlo un bambino, averlo in braccio, sentirne la pelle, coglierne lo sguardo e la suzione, percepirne posture e atteggiamenti con continuità perché prenda forma quel legame, quell’amore, che rende il bambino  il proprio bambino. Esperienza nuova, del tutto nuova rispetto al bambino fetale, pensato e conosciuto in una dimensione che può travasarsi, articolarsi con quella consistente concreta del  bambino nato, capace di vivere e suscitare movimenti emozionali e emozionanti di ben altra estensione e portata che il piccolo uterino.

E’ l’esperienza vissuta nell’interazione accuditiva e relazionale che da forma all’incontro intersoggettivo tra bambino e caregiver. E questa  vita vissuta è di gran lunga più forte e significativa dell’attesa. Tra il fantasmatico e il reale ha forza maggiore il reale ed è il reale a tracciare i segni della storia tra  ciascun bambino e chi con amore  lo accoglie e vive, in stretta congiunzione, l’ardore che segna e sostiene la crescita.

Quanto affermo sembra essere in linea con la consistenza di finestre temporali diverse, asseconda delle specie di animali,  perché si crei il legame specifico tra madre e piccoli. La finestra temporale per il legame sociale è aperta lungamente per la nostra specie, al contrario, per mammiferi i cui piccoli nascono capaci di autonomia è brevissima. Poche ore perché una pecora riconosca il suo piccolo. Mi preme sottolineare questo aspetto per accentare gli aspetti concreti e agiti che consento il legame di affiliazione. A questa condizione va aggiunto quanto il sistema emozionale della CURA, come ricordato da Panksepp nel testo precedentemente menzionato, se ha nel materno la sua ovvia realizzazione, appare comunque pensabile e possibile per il maschile. Afferma con prove documentali: ”I padri di molte specie hanno dei circuiti materni latenti nei loro cervelli, in attesa che l’ambiente giusto ne amplifichi i potenziali (de Jong et al. 2009)” (p.307).

Non siamo uccelli o pesci . Molto del maschile non umano ha competenze per prendersi cura, a volte in esclusiva, dei piccoli:  Il casuario della Nuova Zelanda cova  e si occupa dei pulcini da solo fino alla loro autonomia. E non è l’unica condizione conosciuta di cura parentale al maschile!

Proverei allora a prendere in considerazione concretamente gli aspetti dell’interazione adulto-neonato che percepiamo in trasformazione.

Toccare un bambino

E’ l’incontro reale con un bambino dunque, sentito proprio, che consente gesti, sguardi, intimità e vicinanza fatti di  contatto pelle a pelle, occhi negli occhi, come in ogni innamoramento.  Il tatto è tra i sensi quello più fortemente presente nella vita fetale. Un bambino sente sulla pelle prima ancora di udire e vedere. Ma il tatto non corre solo sulla superficie corporea, con una funzione cognitivo-difensiva. Ha  forti connotati emozionali: a fior di pelle o a pelle d’oca percepiamo quanto ci colpisce significativamente. Una buona ricerca ha messo in chiaro la funzione di legame, di riconoscimento sottile degli stati d’animo di quanti incontriamo, percepiti con un accostamento anche minimo, a pelle. Anche la  stereotipa stretta di mano da sola  è in grado di consentirci declinazioni sottilissime circa personalità e stati d’animo di un nostro estemporaneo interlocutore.

Il tatto affettivo, il riconoscimento della qualità significativamente emozionale del contatto con l’altro va riconosciuto come il territorio  su cui si edifica quell’intensa intimità da sempre attribuita a madre-bambino. Dobbiamo chiederci se possiamo immaginare  la possibilità di attribuire ai gesti accuditivi, alla presenza fisica, alle carezze maschili la qualità affettiva, la competenza relazionale che, riconosciamo al femminile.

Il progressivo  superamento della distinzione valoriale tra mente e corpo, fa pensare alla crescita fetale, alla neonatalità come luogo di processi fondativi di proceduralità essenziali. Agite e non solo  rappresentate o rappresentabili.

I nuovi scenari  che si vanno delineando, sia nella conduzione tradizionalmente familiare fatta di padre madre e bambino, sia quando a fare famiglia si trovino persone dello stesso sesso, o più precisamente persone di sesso maschile, costringono a considerare come e se è possibile per il maschile, vivere il trasporto amoroso per il piccolo senza che una sessualità impropria lo raggiunga. E carezza e baci e abbracci possano, ma anche nutrimento, pappe, addormentamenti e protoconversazioni per e con un bambino, nulla togliere alla solidità sociale, alle caratteristiche specificatamente maschili.

Paventiamo una sostanziale incompetenza, una linea sparti-acque che impedisce al maschile il lasciarsi conquistare dal bambino, dal neonato.

Una immagine di vita comune a esemplificare col sorriso sulle labbra quanto vado dicendo.

Prendo in considerazione le  tante Osservazioni del neonato. Ho negli occhi il modo in cui teneri maschi adulti si regolano col neonato.  Carlo, 6 mesi.[4]

Nonno Giuseppe appena arrivato si avvicina a Carlo, che sorridente agita mani e piedi vedendolo. E’ in braccio alla mamma che commenta dicendo” Carlo c’è il nonno, ora facciamo tante cose belle insieme!” Nonno Giuseppe è visibilmente contento e compiaciuto dell’accoglienza del piccolo. Si avvicina al nipote e sorridendo felice gli afferra le gambette scuotendole…mentre gli dice ‘_Bimbo bello, bimbo bello’…con voce colma d’affetto.”

Il gesto dell’afferrare  le gambe e scuoterle un po’, l’ho visto accadere più e più volte nelle osservazioni. Somiglia tanto a una calorosa stretta di mano, la trasformazione sui generis di un gesto di cordiale saluto tra adulti a cui non è semplice evidentemente sostituire l’abbandonarsi a un  abbraccio, un contatto che rivolto al bambino, è  accoglierlo in una condizione di totale abbandono, di tenero affetto, di corporeità senza distanze e incondizionata.

Descrivo un gesto, minimo, in grado di raccontarci, quanto ancora oggi sia inconsueto per il maschile trovare i modi di una vicinanza che, lo si percepisce, è appena sottopelle, ma che ha necessità di divenire consuetudine, gesto quotidiano appartenente, senza portarsi dietro connotati che lo definiscano come materno o paterno, femminile o maschile.

Notazioni di costume poco adatte a un ponderato discorso. Ma ritengo che dietro le preoccupazioni circa i nuovi assetti familiari, in particolare quelli più allarmanti: la genitorialità attribuibile alle coppie omosessuali, ci sia si la difficoltà ad accettare il disarticolarsi di tutti i piani che sembravano cosi ben espressi nelle nette divisioni tra maschi e femmine e relative funzioni e compiti, ma anche il timore, che due uomini, non importa  quale sia il loro profilo identitario e la sessualità di genere, non sappiano, non possano essere in condizione di fare da partner significativo nell’accudimento primario del bambino.

C’è molta strada da fare: muoviamo dalla triangolazione edipica tutta centrata sul primato simbolico paterno, e siamo appena pervenuti alla centralità performativa della competenza materna in grado di essere competentemente  co-costruttiva, intercorporea, in riverberazione intensamente  intersoggettiva dei processi maturativi del neonato.

Il passaggio successivo ci sollecita a riconoscere che le qualità umane necessarie per accogliere con amore e viva competenza il bambino, anche senza essere pinguini, siano  possibili, nella disponibilità di chi abbia voglia e desiderio di essere genitore. Senza distinguere in maschile e femminile ma in adulto e  bambino, genitore e figlio.

Se proviamo a pensare poi alla genitorialità condivisa da due partner femminili, facile la fantasia sulla difficoltà  a essere allo stesso modo intensamente in apprensione materna primaria col bambino e  in una temuta fusionalità al quadrato.

E nella altrettanto temuta assenza  dell’apporto regolativo del maschile.

 La regolazione normativa e valoriale del bambino.

 

Quanto appena affermato apre un altro scenario tra i tanti, più pervasivamente presente Mi riferisco alla condizione di famiglia monogenitoriale. E in particolar modo, perché le più numerose, quelle composte da madre e figlio/figli.

Una breve premessa.

Una maggiore chiarezza relazionale, l’emancipazione femminile, la ricerca dell’amore a ogni età, la diminuzione delle gravidanze  e, sto elencando a caso, una sessualità liberata dal compito riproduttivo, hanno  prodotto una disarticolazione a volte scomposta dell’assetto matrimoniale inteso per sempre. Con la conseguente edificazione di una nuova forma di famiglia propria del mondo occidentale: una mamma e un bambino, forse 2.

E il padre, lontano,  come si conviene agli ulisse che simbolizzano tanto il paterno nella pubblicistica oggi di moda, vivendo in mari in tempesta tra le Calipso,  Circi e Nausiche, spinti al  ritorno solo per riprendersi il regno. Per piccolo che sia.

 Questa famiglia  e la monogenitorialità che comporta sollecita alcune riflessioni su aspetti in trasformazione ma non ancora risolti.

Questa stessa condizione, certamente frutto di scelte dolorose e non auspicabili, è concretamente la medesima che sembra realizzarsi nei paesi europei più avanzati e fortemente garanti dell’infanzia. Aumentano esponenzialmente le donne che, quando l’orologio biologico accelera e si trovano senza un partner, non esitano a avviare gravidanze da inseminazione eterologa , certe di volere essere comunque madri. In Italia ciò accade usando escamotage, in altri paesi europei in modi regolamentati.

Ma tornando alla nostra realtà dai connotati mediterranei, un aspetto appare problematico e  da risolvere in termini culturali e emancipativi.

  Lo statuto del femminile mantiene ancora oggi tratti segnati da paradigmi patriarcali. Come nelle iscrizioni mortuarie della Grecia antica in cui le donne compaiono col nome seguito da figlia di, moglie di o madre di, ancora oggi rimane connotativo sul piano sociale l’avere un cognome, l’acquisire un cognome la cui perdita mette nella pericolosa condizione di una mancata appartenenza che non può che riversarsi nella posizione del figlio. Su un piano più privato e quotidiano,  viene meno la sponda di un sistema che edifica nel maschile in maniera esclusiva, la competenza sociale e assertiva. Ed è in mani femminili l’edificazione  del sistema nella sua consistenza casalinga, familiare.

Educazione del guerriero

 

Riconoscibile,  già tra madre e bambino, ma anche tra piccolo e sorelle,

un percorso affettivo-educativo che da tempo ho definito educazione del guerriero.

Riferisco di questa modalità per affermare che andamenti di potere e di

forza, attribuiti al maschile, sembrano essere perseguiti, e per certi versi resi possibili, proprio dal femminile.

Succede che intorno all’anno d’età i gesti imperiosi del bambino, i colpetti

che il piccolo può rivolgere alla madre sono accolti con sottolineature gioiose della prodezza, da mostrare e condividere con gli altri familiari.

 Non faremmo lo stesso se fosse la bambina a mostrarsi imperiosa.

Gli stessi gesti rivolti ad esempio, a una sorellina più grande e comunque capaci di fare male, sono consentiti ,da accogliere: gesti significativi della qualità maschia del piccolo e perciò accettabili. E apprezzabili.

Quando crescendo il bambino diviene più competente nel agire forza  e

meno disposto a cedere, l’atteggiamento materno muove attraverso

compiacenze stirate perché non si arrivi al diverbio, per tracimare poi in gesti disperati e disperanti quando il figlio, nel suo essere irriducibile,

passa, a suo modo, alle vie di fatto colpendo o gridando senza recedere.

 È solo di fronte all’esasperazione di questo andamento, quando è evidente che il bambino ha la vittoria morale in pugno, che la madre diviene dura e intransigente, passa lei alle vie di fatto ma per disperazione, vinta comunque dal bambino che, aspramente rimproverato, a volte percosso a sua volta, è come confermato nello stile di conduzione del diverbio. Nel giro di brevissimo tempo sarà consuetudine il conflitto, l’incendio continuo per i motivi più disparati, virulento, irrisolvibile.

Il femminile, potrà difendersi solo dopo che si è arrivati al disastro, alle percosse, ai morsi del piccolo despota. Sempre impari.

 Colpisce di queste dinamiche come tutto il femminile di famiglia sia coinvolto nella medesima gestione delle arrabbiature del piccolo. Tutte le donne di famiglia colpite, possono lamentarsi, arrabbiarsi ma da vittime, per ritorsione di fronte al male subito, raramente amministrando giustizia, educazione, insegnamenti di crescita.  Con Assertività.

La dizione educazione del guerriero sembra poter cogliere il criterio che codifica la necessità che il maschile cresca capace di attaccare, di essere forte e di mantenere la sua forza, qualità guerriera, funzionale probabilmente alla difesa del gruppo familiare, sociale e comunque in grado, sin dalla più tenera infanzia, di dominare e vincere sul femminile. Impossibilitato quest’ultimo a raggiungere una posizione adulta, grande di fronte al maschile, non importa quale ne sia l’età. La funzione materna consente al femminile, ha consentito storicamente al femminile, di avere cura del guerriero, di farne un guerriero, accettandone il dominio.

Si può immaginare che mutate condizioni di vita cambino e cambieranno i rapporti maschio-femmina e quello che avremo da dire sul loro percorso risuonerà profondamente mutato. Per ora limitiamoci a osservare la difficile armonizzazione del consolidato e pervasivo rapporto uomo-donna, con una regolazione che superi gli attuali sistemi diseguali e sopraffattivi.

Mi sono dilungata nel descrivere questo andamento per segnalare nella costituzione della famiglia mononucleare con genitorialità femminile,  un aspetto peculiare, come lo sono  e non meno , la perdita di  posizionamento economico e sociale, oltre che affettivo, quando il padre ritira per così dire il suo cognome, rinuncia, sempre che rinunci, a riconoscere come propria la donna. Viene sostanzialmente a mancare, non tanto una qualità valoriale e normativa, ma la presenza simbolica e statutaria tutta ascritta all’esistenza di un padre  a cui fare riferimento, del potere di legge.

“Lo dico a tuo padre” risuona ancora oggi come il riconoscimento di  una patrilinearità normativa che muove  dal divino e attribuisce prevalentemente  al maschile l’esercizio regolativo delle norme e dei divieti. E delle punizioni naturalmente.

Per le  quali è necessaria forza e capacità impositiva. Non solo fisica.

 Quanto il femminile può attribuirsene la titolarità se esso stesso minore, debole, a cui è necessaria la presenza del maschile per avere status?

Accesso al mondo del lavoro, autonomia, sviluppo di una seità meno cagionevole, sono trasformazioni in atto che certamente troveranno realizzazione funzionale anche in riferimento ai nuovi assetti familiari. Segnalarne le asperità  è riconoscere aree a cui essere attenti nel nostro  accompagnare psicoterapicamente le difficoltà umane.

La Sindrome dell’impostore[5]  sembra saldamente vivere nella mente al femminile.

Le donne sentono bene: insediate da pochissimo  nella competenza  lavorativa, nella gestione del potere, nella significazione  di un sé vestito di assertività che è tutto  da creare e solidificare, sanno di non godere di un’antica credibilità che da Dio a scendere, investe ciascun  maschio, chiunque egli sia. Maschio a  cui da sempre si sono rivolte e a cui bisogna rivolgersi per essere al sicuro, avere status sociale (cognome patrilineare senza alcuna altra possibilità ancora oggi in Italia), godere di diritti che dovrebbero essere per definizione i propri  semplicemente perché facenti parte dell’umano.

In aggiunta le donne  si portano dietro, ed è stato l’esercizio reale e compenetrato della loro presenza a questo mondo, una articolata e ben strutturata capacità di stare nei panni dell’altro, di ascolto fino alla perdita di se stesse.

Mi colpiva anni addietro la lettura di un  passo di Rossana Rossanda, ne “La ragazza del secolo scorso” (2005) in cui  sosteneva la sua difficoltà, dirigente del PCI,  a enucleare dalla discussione, dopo ampio dibattito, una risoluzione da adottare e sostenerla senza  tentennamenti, cosa che riusciva ai dirigenti maschi, che invece sapevano farlo benissimo. Attribuiva a una sua incapacità la condizione. Io pensavo e penso invece che l’ascolto e la partecipazione compenetrata  alle posizioni degli interlocutori vive di una tessitura e genera una tessitura che non si risolve nel privilegiare poi il proprio sentire. Al contrario l’ascolto al maschile ha a che fare con l’acquisizione  dei diversi punti di vista per arrivare attraverso conferme e disconferme al proprio. Sempre e comunque saldamente il proprio. Questione di struttura che fa la differenza. La risolutezza e l’ assertività come attitudini in dotazione e non come frutto della solida sedimentazione del poter cimentarsi nell’impasto del pensiero di tutti.

Tessitura che crea  disegni intricati e ricchissimi come un insieme irriducibile a uno o a un altro dei motivi codificati. L’incisività come frutto di un disegno le cui tante tracce si muovono fino a compiersi in un unico tratto. Il proprio.

Una estesa mutazione sembra debba investire il mondo femminile: poter vivere il senso di Sé al riparo della continua parametratura con il presunto valore /potere del maschile.

L’acquisizione  di una assertività come tratto personale, posseduto, evocabile naturalmente nelle proprie corde senza deleghe divine o partecipazione alla mascolinità.

La storia millenaria ci consegna l’immagine di un maschio forte dunque,  a cui appare naturale accostare lo statuto essenziale del femminile: essere  bella.

Qui appare pertinente citare l’affermazione freudiana che  non nega al femminile la possibilità di essere attiva ma che fondamentalmente le mete da raggiungere per il femminile  sono mete passive.

Possiamo ritenere la tanta cura  femminile della bellezza  come essenzialmente rivolta a una meta passiva?  Avere  e mantenere i caratteri per essere scelte dal maschile.

Non è necessario che mi dilunghi nel considerare i modelli culturali che storicamente hanno definito i campi separati dell’espressione seduttiva di ciascun sesso.

  1. Morris, ne “ L’animale donna” ( 2004), descrive in termini essenzialmente etologici e funzionalisti le caratteristiche del corpo femminile, rimarcando quanto i tratti del volto poco accentuati, l’enfasi per  capelli chiari, pelle liscia e senza peli, etc.,  compaiano come una essenziale neotenia che insieme con i tratti più decisamente sessuali (seno, proporzione fianchi vita, etc.) definiscono le caratteristiche necessarie a concorrere per la scelta sessuale. La competizione riguarda le femmine e la scelta è dei maschi. A riprova bellezza, parata, livrea, vistosità ed eleganza sono l’handicap a carico del femminile.

Anche in questo campo a prima vista fortemente polarizzato, sembra che  tanto stia cambiando.

E sembra difficile  individuare una direzione. Convivono per il femminile  acquisizioni di reale potere culturale  senza che venga meno, ad esempio,  la ricerca esasperata di  mantenere negli anni  un aspetto fisico che non superi mai  i tratti della prima giovinezza  e per il maschile  un difficile riposizionarsi nel sociale senza il potere sulla presunta, ma per lungo tempo affermata e coltivata minorità femminile.

 

Sulla sottomissione  della donna al maschile.

 

Come afferma P. Bourdieu-sociologo francese che tanto si è occupato dei meccanismi di riproduzione delle gerarchie sociali, attribuendone la matrice a fattori culturali e simbolici– è lo sguardo maschile a sottomettere ilfemminile.

Dobbiamo a lui la definizione di violenza simbolica frutto della capacità delle posizioni dominanti di nascondere l’arbitrarietà di queste produzioni simboliche, e quindi di farle ammettere come legittime agli attori sociali dominati.

Aggiungo che tale sguardo è frutto del patto tra maschi , di regole convenute tra chi ha potere e possiede, amministra. Il rispetto delle regole impegna per primi  i titolari del patto sociale. Bambini  e donne oggetto di regola.

Le considerazioni di P Bourdieu[6]  sull’affrancamento  del femminile dallo sguardo maschile, detentore di una simbolica che appunto rende oggetto, riguardano   le donne che praticano sport, ma queste a suo parere corrono il rischio di perdere in femminilità;  a mio parere coglie bene, ma non fino in fondo, quanto l’avere un corpo muscolare e che si esprime attraverso la muscolarità, fa accedere a una condizione di forza, di potenza che si pareggia, in termini ideali ma non solo, al maschile. E  dunque sottrae a quella debolezza, inefficacia fisica che è alla base di uno dei contratti maschile- femminile.

Contratto sotteso, in filigrana, non visto e non percepibilie a prima vista, ma costantemente presente, rappresentato nei tanti modi in cui si declina, soprattutto all’interno della coppia e della famiglia, il potere.

A questo proposito  Bourdieu afferma che il femminile che accede allo sport sembra vivere la corporeità come propria e non assoggettabile all’altro: “la pratica intensiva di una certa disciplina sportiva determina nelle donne una trasformazione del rapporto con il proprio corpo e permette loro di accedere a una visione di esso che si potrebbe definire maschile; consente loro insomma di avere un corpo per sé invece di essere un corpo per gli altri, dà  loro un corpo che è in sé il proprio scopo”[7].

Anche in questo caso essere e avere il corpo come proprio avviene al prezzo di frequentare una caratteristica maschile, come per le psicoanaliste della prima metà del ‘900  il poter essere pensanti a patto di essere un po’ maschili.

Bisogna riconoscere che una sostanziale   emancipazione del femminile sembra segnare il sociale e disegnare nuovi panorami ancora oggi difficili da frequentare.

E da definire senza continuamente ricorrere al confronto/scontro col maschile.

Vorrei far brevemente riferimento al mutare legislativo che mette chiaramente in luce i profondi  mutamenti che ci appartengono . Apprezzando il fitto intreccio tra cultura e regole condivise. Riconoscendo che  le leggi sono di fatto la formalizzazione  e conseguente proposta normativa di quanto socialmente è maturato e diviene consuetudine.

Se  ne seguiamo gli andamenti dalla metà del secolo scorso, tanto per non perderci, diviene facile riconoscere il continuo rimando tra la maturazione di nuove esigenze individuali, interpersonali,  e la lettera della Legge. Con archi realizzativi  inevitabilmente diacronici . Stringiamo il campo a famiglia, uomo, donna, figli.

L’acquisizione di personalità politica per il femminile, attraverso l’accesso al voto, solo nel 1946 porta la società italiana ad accedere  al suffragio universale. (Febbraio 1946,  le donne divengono anche eleggibili, 25 anni, oltre che elettrici, 21 anni. ).

Nel 1956 la Corte di Cassazione fa decadere l’art. 571 del codice Rocco, (Legge Rocco N. 563, 3 Aprile 1926 )lo ius corrigendi : il marito perde il potere educativo e correttivo che comprendeva anche la coazione fisica.

Oggi pallida, ma consistente ombra, che permane in molti rapporti violenti che frequentano la vita quotidiana di coppia, familiare e che divengono,  nei casi estremi, femminicidio.

 Bisognerà aspettare la Riforma del diritto di Famiglia  del 1975  perché scompaia la figura del capo famiglia .

Compare  successivamente la distinzione tra il reato di abuso dei mezzi di correzione e disciplina e quello di maltrattamenti in famiglia.

Di  recente, nel 2012.

Un tempo veloce ha mutato i panorami sociali, sempre più abitati dal femminile, a volte consistentemente. Un campo emblematico: le donne dagli anni ’60 del secolo scorso possono diventare giudice.

La legge n. 66  9 febbraio 1963, ( dopo l’abrogazione della legge 17 luglio 1919 e sue applicazioni), consente di accedere  a tutte le cariche professioni e impieghi pubblici, compresa la Magistratura.

Non dimenticherei che l’illegittimità femminile ad accedere alla competenza del giudizio legale, veniva attribuita a una  minorità biologica e fisiologica. Sesso, il femminile, da proteggere e da correggere con maschia mano e conseguentemente non in grado di essere sapientemente giudicante.

 Dal 2015, il numero delle donne in magistratura ha superato quello degli uomini. Inoltre, dal 1996 il numero delle donne che hanno vinto il concorso in magistratura è stato sempre superiore a quello degli uomini.

Ne faccio menzione  per riconoscere insieme quanto ancora non sia storia  il riconoscimento al femminile di qualità umane non distinguibili da quelle maschili.

. Nel 1969 viene dichiarato incostituzionale l’articolo 559 del codice penale che puniva unicamente l’adulterio della moglie.

Le date che riporto danno la misura della  trasformazione lenta della struttura sociale che per cerchi concentrici e in un andamento a spirale ridisegna con fatica e a macchia di leopardo il tessuto affettivo, emozionale, le relazioni, i compiti, le funzioni che gli umani vivono e condividono.

Il 1981 è un anno importante. Con la legge 442 viene cancellato il cosiddetto delitto d’onore, quell’attenuante che prevedeva una pena ridotta per chi uccideva il coniuge, la figlia o la sorella (e l’amante loro), nel momento in cui, “nello stato d’ira determinato dall’offesa all’onore”, se ne scopriva la “illegittima relazione carnale”. Viene anche abolito il matrimonio riparatore che prevedeva la cancellazione del reato di violenza carnale nel caso in cui lo stupratore di una minorenne l’avesse sposata.

Bisogna aspettare il 1996 perché venga approvata la legge n. 66 che stabilisce nuove norme sulla violenza sessuale. Finalmente lo stupro cessa di essere un reato contro la moralità pubblica, (come prevedeva il codice del ministro fascista Rocco), e diventa reato contro la persona.

L’illegittimità della propria autorità, del potere, perché di questo si tratta, è ancora nel cuore delle donne, negli occhi della socialità, che appena evocata si porta dietro e dentro il maschile che la abita, le da forma, vita, con legittimità. Non importa se con competenza, ma sempre con legittimità.

Rimangono oggetto del codice penale, coloro che risultano  incapaci di volgere lo sguardo verso le radici della loro violenza, segnati dallo stigma sociale, acquisizione culturale assai recente per tutte quelle forme di vessazione e violenza che non esitino nella uccisione. Ma fino alla abrogazione della riduzione di pena o assoluzione per delitto d’onore, neanche l’uccisione della moglie era motivo sufficiente.

Abbiamo compreso che l’accesso del femminile alla posizione di persona-soggetto ha scardinato sistemi millenari di potere, patriarcali, mutato i rapporti interpersonali, gli scenari fatti di dipendenza, senza libertà.

In un percorso che muove dalla arrendevolezza – qualità precipua del femminile nella relazione col maschilealla assertività, posizionamento in corso d’opera, le cui forme sono tutte da inventare (vedi il lungo e articolato dibattito che ha preso forma  nelle proposizioni femministe). Ridisegnare le relazioni, gli spazi e i modi dell’incontrarsi, è alfabeto in via di edificazione.

Un elemento sembra in ogni caso sbilanciare fortemente la conduzione dei rapporti quando divengono conflittuali: la diversa forza fisica. Si può riconoscere che armi che colpiscono oltre la lunghezza delle braccia sono a disposizione di tutti, ma prima ancora del braccio che strozza o spara  c’è  la percezione costante  e irrisolvibile di diversi rapporti di forza tra maschi e femmine  giocati a partire da un investimento identitario nell’avere una muscolarità competente all’offesa e alla difesa che riguarda il maschile; al contrario essendo il femminile tutto centrato sull’avere un corpo seduttivo, minuto, fragile mai adulto, per come dicevamo prima. Debolezza fisica  come qualità essenziale della seduttività al femminile a fronte della muscolarità-forza, qualità della fascinazione maschile.

Il secolo appena trascorso ha imparato a rispettare, ma anche in questo caso in linea di principio, non sempre nella vita quotidiana, i bambini – che comunque rimangono “minori”. Ma il femminile, apparentemente più in grado di un bambino di far valere i propri diritti, sembra ancora oggi non aver acquisito l’agibilità di una parità col maschile.  C’è da pensare che la perdita di potere del maschile sul femminile si configuri come vero e proprio danneggiamento dell’ assetto indentitario, crollo verticale del senso di Sé.

Il sistema uomo-donna va considerato come un sistema funzionale, funzionante ma in evoluzione e come tale posizionato in una omeostasi mutevole e continuamente  tutta da ridefinire.

Oggi nel mondo occidentale (qualsiasi cosa voglia dire questa espressione) dobbiamo misurarci con la legittimata frequentazione dello spazio sociale, lavorativo, del femminile ma nel farlo dobbiamo adottare un cambio di passo: il mondo sociale nella sua totalità, si affranca sempre di più dalla  logica sperequata sul piano del potere sociale uomo-donna e compie passi per ognuno dei quali è necessario ricontrattare e ricomporre l’intero quadro.  I cambiamenti  degli assetti identitari , non solo maschi e femmine (ma anche GLBTQAA+), sembrano  consentire l’acquisizione  ampia  di stati della persona  che non si definiscono nella polarizzazione maschio-femmina e che iniziano a disegnare, specie tra gli adolescenti forme,  confuse e confondenti, portatrici della disarticolazione e ridistribuzione di qualità e caratteristiche personali, psicologiche, sociali in cui primati acquisiti si spezzettano e essere maschi e femmine o altro non  consente le antiche e ampie definizioni, da Aristotele a Freud, che passano attraverso attivo-passivo….etc.

Il tema della violenza di genere, segna i rapporti uomo-donna, la  famiglia , più ampiamente gli assetti sociali. Anche la dizione femminicidio se coglie la specificità delle uccisioni legare al sesso e non più ampiamente rivolte alla persona, lega al solo femminile una condizione di sopraffazione specifica.

 Necessario  rivolgere l’attenzione alle regolazioni interpersonali in un’ottica  culturale. Quanto andiamo maturando nella regolazione sociale, che in una circolarità essenziale co-costruisce gli assetti individuali e intrapsichici, trova la sua massima espressione nelle tante espressioni millenarie della cultura umana: sistema economico, religione, filosofia, letteratura, sistema legislativo, per citare le massime. Ma senza  trascurare la scuola, la cura del crescere, la famiglia, coagulo micro e macro di tutti i sistemi. Con al centro l’individuo, la persona, la sua psicologia.

Conclusivamente: perchè un bambino compia i suoi passi di crescita è necessario che sia con lui , stretto dai fili sottili di un amore incondizionato che sappia intessere con immedesimazione e empatia la trama quotidiana del vivere, un adulto dedito, appassionato, compenetrato.

Per gesti concreti, per pensieri gioiosi, per percorsi mentali mai uguali che con riverberazione e sintonia sappiano cogliere il senso di quanto si vive e condividerlo creativamente. Empatia e compartecipazione, non importa se maschi o femmine o altro.  Persone e bambini, non importa se padri, madri,….

Necessario il superamento delle specializzazioni e polarizzazioni del maschile e del femminile. Nessuno è più adatto, nessuno può rivendicare primati.

L’unico primato necessario è riconoscibile nell’essere li, ai piedi della culla, o meglio con in braccio un bambino a lui dediti. Non occorre altro.

 

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Bibliografia

Mondello M. L., Alcune note  sulla funzione paterna, in  AA.VV.,Le figure del padre, Armando, Roma, 2000.

“Vergine e madre e figlia” in AA.VV. Tra femminile e  materno: l’invenzione della                                madre . Franco Angeli Milano 2009

Mondello M.L., ll femminile nella cultura occidentale tra maternità, minorità e in quanto al sessuale…, in Da Antigone a Sakineh , a cura di Di Vita A. M., Miano P., Franco Angeli ed., Milano 2011

 

[1] Freud S. (1932)   Femminilità in Introduzione alla psicoanalisi (Nuova serie di lezioni) in OSF, Vol 11, p.223

 

[2] M. Arioti, Introduzione all’ antropologia della parentela, Edizioni Unicopli. Milano 1995

[3]  D.W. Winnicott, Lettera a Gabriel Caruso in Lettere, Cortina, Milano 1987, pag. 162

[4] * OSSSERVAZIONE prodotta al seminario di Baby observation del Corso Ossrvativo di Ppalermo

[5] Da Internet: Col termine “sindrome dellimpostore” si fa riferimento ad un fenomeno descritto a fine anni ’70 dalle psicologhe Pauline Clance e Suzanne Imes. Tale espressione si riferisce alla percezione di un’esperienza interna di non meritevolezza del successo personale.

 

[6] Nelle scienze sociali con

 

 

[7] Bourdieu P.  Così dall’antichità  a oggi la sottomissione della donna sta nello sguardo maschile in

Lettera Internazionale n. 112 , 2012